SCUOLA D'ESTATE, 3-25 LUGLIO 2009

Brevi note a conclusione del lavoro

Pochi allievi. Molto tempo. Uno spazio non teatrale. Le montagne, gli alberi e brandelli di vecchi edifici a scenario.
Nulla di seducente, una alta campagna di confine, sfruttata, costellata di stalle e caseifici. E qui, in un angolo, mettersi a fare il teatro, sotto un acero.
Con Adriana Ribotta ho lavorato su una poesia di Les Murray, grande poeta australiano. An absolutely ordinary rainbow è la storia di un'epifania: un uomo piange in un angolo di una piazza, in una città. Tutto qua: qualcosa di semplice e misterioso, come il modo che chi dice questa poesia dovrebbe avere nel ridarla al pubblico. Murray è poeta di terra, di campagna, è una voce piana, potente, che parla di uomini e scenari naturali, del loro rapporto che è sempre un rapporto tragico, critico, che mostra la necessità di un risveglio della coscienza, di una presa di responsabilità sul reale. Non è un poeta ecologico tuttavia, ma di un particolare umanesimo cristiano-naturale, di grande realismo e coscienza della profonda interconnessione tra le cose. Con Adriana il gioco era far passare tutto questo, senza aggiungere nulla, far scorrere il film di questa visione (un uomo piange a un incrocio, il traffico si ferma, le reazioni degli astanti ecc.) senza interpretarla. E però senza la freddezza di una descrizione. In mezzo tra questi due opposti, entrambi poveri, sta la presenza complice dell'interprete, calibrata al centro di sé, un sé scomparso, che è diventato spazio, vuoto, disponibile, cubatura volumetrica attraverso cui il testo rotola e si moltiplica di significati. Non secondaria parte del lavoro è stato affrontare il linguaggio poetico, sintetico e allusivo, economico, senza sbavature. Come può un lavoro tecnico sui fondamenti della poesia non solo non interferire con la profondità dell'approccio interpretativo ma rappresentare i cardini stessi della porta che si apre, la porta di un'interpretazione generosa, calibrata ma vibrante, viva?
Con Raffaella Tomellini ho lavorato invece a una interpretazione per così dire pura, l'incarnazione di un personaggio protagonista in prima persona di un racconto di Roberto Bolano, Joanna Silvestri. Si tratta di un lungo soliloquio ai confini tra autobiografia immaginaria, melodramma hollywoodiano e inchiesta poliziesca, cioè il pastiche geniale che ha imposto lo scrittore cileno come una delle voci più straordinarie della letteratura contemporanea.
Il personaggio è una giovane donna morente, nella sua camera in una clinica privata, che ripercorre la sola grande storia d'amore della sua vita.
La particolarità della trama è che Joanna è stata una famosa pornoattrice e il suo grande amore un altra star del porno, anche lui scomparso per la stessa malattia che si sta portando via la protagonista. Il rapporto interessante è tra il candore quasi ebete di Joanna e l'orrore del set dove hanno avuto luogo le sue esperienze di donna. Joanna ne è immune, legata solo all'essenza romantica, infantile e meló del suo innamoramento per Jack. Anche Jack, eroe maschile del racconto, si staglia come una figura superiore, stralunata e assente, capace di redimere con la propria energia marziana lo squallido sottomondo commerciale dove i due si incontrano. Le sfide per l'attrice: a) ridare la debolezza della malattia senza citarla né appoggiarvisi troppo ma usando lo stato di infermità come midollo espressivo b) Far fiorire il ricordo sentimentale con tutta la gratuita, potente convinzione di una bambina mai cresciuta e mai amata c) intercettare un'area già postuma da cui la morente parla, attingendo a una saggezza inquietante d) tradurre tecnicamente tutto questo in un flusso verbale ininterrotto e lieve e in una fisicità ormai dimentica di sé, forse volgare, sicuramente indifferente al pubblico.
Con Elena Valente ho lavorato a un mio testo, Confine. Il personaggio femminile è una giovane madre scampata a un tentativo di suicidio, e da questo tentativo mutata, alleggerita, miracolosamente santificata. La donna vive in una valle di montagna friulana, col marito e il figlio appena adolescente. Il suo isolamento di non natia è atroce e completo, si consuma nell'incomprensione e nella indifferenza di un'intera comunità. Le confessioni della donna sono posteriori all'accaduto e ne ricostruiscono non tanto le ragioni quanto proprio certi contorni quasi plastici, come brandelli preziosi di un complesso ricordo stratificato e temporalmente non lineare. L'incedere della parola è spezzato, direttamente collegato a un'interiorità lucida, perfino impietosa. E questa forza analitica sostiene anche le descrizioni più toccanti e realistiche del momento del gesto autolesionistico andato a vuoto. La sfida principale per l'attrice è proprio quella di dare voce a questa forza, una forza positiva e un'odierna, guadagnata stabilità da cui la protagonista si china di nuovo sul proprio instabile sé del passato per descriverlo con una precisione che è essa stessa una dimostrazione di forza. Il pavimento generale del personaggio ora è solido: solo così l'eroina può attingere alla propria profondità più tragica e ridare un'ampiezza non comune ma esemplare. I brandelli di testo su cui abbiamo lavorato sono due. Il primo è la cronaca in soggettiva dell'evento, un resoconto fluttuante ma di maniacale precisione. Il secondo è invece l'esordio alla nuova vita, la prima circostanza in cui, per il personaggio, il mondo si dà a conoscere come attraverso un'allentamento dei propri gangli costitutivi, facendo entrare la donna nella morte-in-vita dei mistici, e facendole abbandonare per sempre l'ipertrofico ego della psiche schiacciata sulle proprie vicende.
Con Giovanni La Rocca ho abbozzato un lavoro su Piotrus di Leo Lipski, lavoro interrotto troppo presto per poter individuare delle chiare linee di ricerca teatrale.
Una breve dimostrazione del lavoro di queste giornate è stato mostrato a un piccolo gruppo di spettatori nel pomeriggio del 25 luglio 2009, sulla spianata di Monteforte.